Fermare la guerra L’Ue promuova il riconoscimento internazionale dell’Alto Karabakh

Linkiesta, 19 ottobre 2020

Lontana dalle luci della ribalta mediatica, la guerra tra l’Azerbaigian e l’Armenia infuria. Oggetto del contenzioso è l’Alto Karabakh, territorio storicamente popolato da armeni, con il suo corteo di vittime civili e militari che continua ad aumentare. Finora l’Unione europea, i suoi stati membri, gli Stati Uniti e le altre grandi democrazie sono rimaste silenziose, oppure hanno optato per una postura da Ponzio Pilato, di comoda neutralità tra i due belligeranti.

Una tale posizione di equidistanza dell’Unione europea e dei suoi stati membri non è però politicamente sostenibile e moralmente giustificabile per diverse ragioni:

  • Il Presidente dell’Azerbaigian, Ilham Aliev, ha commesso un errore politico capitale accettando il sostegno militare della Turchia di Recep Erdogan, erede del regime dei Giovani Turchi, che ha attuato il genocidio degli armeni (1915-1916) sul territorio turco (almeno 1.200.000 vittime) e la pulizia etnica di vasti territori da secoli popolati prevalentemente da armeni.
  • L’inclusione politico-giuridica dell’Alto Karabakh nella Repubblica Sovietica di Azerbaigian non è altro che il prodotto di una suddivisione voluta dallo spirito malato e criminale di Joseph Stalin.
  • Le autorità dell’Azerbaigian, iniziatrici di questa nuova guerra, hanno optato per un bombardamento massiccio delle popolazioni civili dell’Alto Karabakh.
  • Il Presidente azero ha accolto, su proposta e con il concorso del regime di Recep Erdogan, almeno 1.500 mercenari provenienti dalla Siria.
  • A distanza di circa due decenni dalla salita al potere, il Presidente azero Ilham Aliev non ha varato la benché minima riforma destinata a democratizzare il regime autocratico ereditato dal padre Gaydar Aliev. Gli arresti e le incarcerazioni di ogni voce dissidente rimangano la regola assoluta e costituiscono per gli armeni dell’Alto Karabakh un fattore di totale rigetto verso qualsiasi ipotesi di reintegrazione nell’Azerbaigian.
  • A dispetto di numerose disfunzioni, il regime vigente in Armenia, in particolare dalla rivoluzione di velluto del 2018, soddisfa molte delle esigenze di base di un sistema democratico.
  • Lo statu quo in vigore sin dagli anni 90 tra l’Azerbaigian e l’Armenia non offre nessuna possibilità di favorire un accordo di pace durevole tra le due parti.
  • Questo statu quo avvantaggia in primo luogo il regime putiniano.

Le democrazie atlantiche e l’Unione europea dovrebbero capire che il “problema Erdogan” è tale per loro anche quando le mire del suo disegno nazionalista si muovono fuori dal bacino mediterraneo. Più il presidente turco internazionalizza la propria influenza, più aggrava il problema che la Turchia oggi rappresenta per la Nato e per l’Ue.

Per queste ragioni e per fare in modo che negoziati tra l’Azerbaigian e l’Armenia possano aver luogo, non c’è altra soluzione che il riconoscimento internazionale dell’indipendenza dell’Alto Karabakh.

Solamente a partire da questo riconoscimento sarà possibile trovare un compromesso (sulla base per esempio della proposta Goble degli anni 90), che assicuri una continuità territoriale tra l’Azerbaigian ed il Nakhichevan (enclave azera ai confini sud-occidentali dell’Armenia) da una parte, tra l’Armenia e l’Alto Karabakh d’altra parte e consenta all’Armenia di restituire all’Azerbaigian i territori azerbaigiani attualmente occupati garantendone allo stesso tempo la sicurezza.

Va da se che un tale riconoscimento internazionale della Alto-Karabakh costituirebbe un reale fattore di rottura rispetto allo statu quo esistente dal 1994, e soprattutto un mezzo per fermare la guerra in corso, solamente se si trattasse di un’azione congiunta di numerosi paesi democratici e, in particolare, degli Stati-Uniti e dei paesi membri dell’Unione europea.

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